Qual è il prezzo giusto di un’impresa? La somma algebrica dei valori di tutte le attività e passività che formano il suo
patrimonio? Teoricamente no; l’utilità che deriva dall’acquisto di un’impresa sta infatti nella sua capacità di generare utili.
Perché non attribuirle allora un valore pari alla somma totale dei profitti che riuscirà a produrre lungo tutta la sua durata?
Purtroppo perché il futuro è insondabile. Ed è per questa ragione che i commercialisti si sono di fatto arresi alle difficoltà del metodo reddituale.
Non però gli analisti finanziari. I quali tengono valido il principio, applicandolo però in maniera rudimentale. La loro
domanda è: il prezzo di un’azione è sopravvalutato (e allora non compro), oppure è sottovalutato (e allora compro)? Rispondere non è facile, ma un numero, meglio un indice, può aiutare.
Si tratta del rapporto price-earnings, ossia del quoziente tra prezzo di mercato dell’azione, quello di chiusura alla Borsa Valori per le società quotate, e utile netto per azione. Esso viene indicato anche con la sigla P/E, derivata dalle iniziali dei due termini che compongono il nome dell’indice, o P/U se si utilizza la traduzione italiana, rapporto prezzo utili.
Se il P/E è molto alto, gli analisti deducono che il titolo è sopravvalutato a causa di forze estranee alla capacità dell’impresa di generare profitti, come per esempio una scalata ostile; se è basso, lo considerano sottovalutato.
In effetti il P/E rappresenta il numero di anni che l’impresa impiega per acquistare se stessa con gli utili che nel frattempo riesce a produrre. Un titolo è sopravvalutato quando sono necessari troppi anni, e sottovalutato quando lo sono troppo pochi.
Ma chi decide se la “soglia del troppo” sia stata varcata oppure debba essere ancora raggiunta? Gli analisti si affidano a
numeri tratti dall’esperienza: ad esempio, 16 per le società del comparto industriale e 50 per quelle assicurative; oppure
confrontano il P/E della società in esame con il P/E dell’intero settore d’appartenenza. Se il primo supera il secondo, si
ha sopravvalutazione; viceversa, sottovalutazione.
Nel caso in cui la società faccia parte di un gruppo, gli analisti considerano al denominatore l’utile netto consolidato per
azione. In questo modo tentano di evitare che la florida situazione economica dell’impresa in esame possa oscurare la
grave situazione patrimoniale e finanziaria a livello di gruppo.
Inoltre, soprattutto quando confrontano il P/E di un’impresa nazionale con quello di una straniera, spesso agli utili aggiungono gli ammortamenti. Ciò perché questi potrebbero essere discrezionalmente gonfiati dagli amministratori nazionali al fine di occultare utili troppo elevati. Invece del P/E, utilizzano allora il cosiddetto price/cash-flow (P/CF).